Basta ricordare il passato, quello recente e quello remoto, per averne contezza: quello 2024/25 è lo scudetto meno maradoniano della storia del Napoli. Un tricolore conquistato all’ultima giornata, con sudore e sacrificio e con la consapevolezza che, stavolta, toccava rimboccarsi le maniche e non affidarsi ad alcun santo protettore. Era necessario, dopo una stagione anonima e culminata in un decimo posto che aveva comunque un risvolto positivo: testa al campionato e basta.
Aurelio de Laurentiis che aveva qualcosa da farsi perdonare – tipo la scelta di tre allenatori uno peggio dell’altro (non me ne vogliano: Garcia, Mazzarri e Calzona) e una campagna acquisti scellerata (male ad agosto, peggio a gennaio) – ha compreso che l’unico modo per riconquistare la piazza era affidarsi non semplicemente a un allenatore vincente, ma a un autentico capopopolo. Antonio Conte poteva e doveva essere la scelta giusta. Lui col DNA, lui che stava (e forse sta ancora) antipatico a molti perché abituato a vincere o, quanto meno, a lottare fino all’ultimo.
«Amm’ fatica’». Queste sono state le prime parole durante la presentazione a Palazzo Reale. Quella nella quale ha detto che avrebbe convinto Kvara e Di Lorenzo a restare e a diventare pilastri del suo progetto. E avrebbe provato a far lo stesso con Osimhen, anche se Victor continua a ripassare il francese, augurandosi di essere capito bene una volta giunto sotto la Tour Eiffel.
Conte comincia la sua avventura conquistando subito la piazza: i calciatori arrivano stremati alla fine di ogni allenamento; si rivede sudore; intensità e attaccamento alla maglia. Il capitano, Kvara pure, ma Conte aspetta dal mercato tre, magari pure quattro, colpi con cui rendere competitiva la squadra e riportarla in Champions.
Giovanni Manna, altro volto nuovo con lo stigma di essere juventino (quanto meno alla voce “esperienze lavorative”), sonda il mercato, chiama gli agenti, chiede il prezzo poi aggiunge: «Chiedo a chi di dovere e le faccio sapere.»
Si aspetta fiduciosi. Un attaccante, un centrocampista che sappia “pensare coi piedi”, uno forte fisicamente che vinca i contrasti e magari segni pure qualche gol.
Antonio aspetta e con lui i tifosi del Napoli che arrivano a Verona col vaticinio dell’allenatore: «La squadra questa è.»
Una squadra tanto, troppo simile, alla stagione 2023/24. Un undici in grado di franare sotto i colpi del Verona: 3-0 e addio a qualsiasi proposito di riscatto.
Conte si chiude coi suoi uomini nello spogliatoio. Le urla rimbombano tra gli armadietti e fanno eco nella testa dei giocatori. Il campionato scorso è un incidente di percorso nella quasi centenaria storia azzurra. Che si scriva, adesso un nuovo capitolo. Si torna in campo e la musica cambia: 3-0 al Bologna, col primo gol stagionale del capitano Di Lorenzo, proprio lui. Promesso sposo alla Juve, fa pace col popolo napoletano e giura amore eterno. Lui che ha raccolto l’eredità di Diego e che è il primo terzino a sollevare la Coppa dello Scudetto, con buona pace di Bruscolotti che – manco fossimo nel libro Cuore – cede la fascia a Diego non prima di aver estorto al dio del calcio una promessa: fammi vincere lo scudetto, così chiudo la carriera felice.
Di Lorenzo, si diceva. Quello intorno al quale si compatta una squadra alla quale si aggiungono: Neres, Gilmour, e McTominay, un ragazzone che sembra un navy seal e che al Manchester United trova poco spazio. Si puntava tutto su Brescianini, invece tocca accontentarsi dello scozzese. Sarà il miglior calciatore del campionato, ma questo non lo sa ancora nessuno!
Finalmente arriva pure il tweet del presidente: benvenuto Romelu. Quel Lukaku che ha fatto impazzire la Milano nerazzurra e che Conte vuole accanto ovunque vada.
È lui a sbloccare Napoli – Parma. Sbloccare sì, perché il Napoli fino all’ingresso di Big Rom stava soccombendo sotto i colpi dei ducali e invece finisce 2-1. La rincorsa può dirsi finalmente iniziata.
Una rincorsa che vedrà il Napoli spesso al primo posto a fare a sportellare contro l’Inter di Inzaghi e l’Atalanta di Gasperini. Il Napoli che molla la Coppa Italia e si concentra solo sulle restanti partite di campionato. Un campionato che pare prendere un’altra piega quando le prime pagine dei quotidiani sportivi, riportano questo titolo: au revoir, Kvara.
Il georgiano ha mal di pancia (espressione ormai desueta ma che continua a rendere l’idea) e in gran segreto si accorda col PSG per ritrovare entusiasmo e per puntare alla Champions, la sua vera ossessione. Tace sullo stipendio (giammai si parli di vile denaro) e sul fatto che il Napoli si indebolisce a gennaio, in piena lotta per il titolo.
Riecco i quotidiani, col titolone in prima pagina: Napoli, Garnacho o Adeyemi. Non arriverà nessuno dei due e non arriverà nemmeno Danilo, anch’esso juventino e scaltro abbastanza da andarsene in Brasile, lasciando Manna con un pugno di mosche e l’imbarazzo di dover giustificare ai giornalisti il mancato arrivo del terzino.
«Con questa rosa qui» dirà Conte «toccherà fare miracoli.»
Dimenticava, il tecnico, che Napoli è la patria delle divine intercessioni, dei 52 (leggasi: cinquantadue, giusto per dare enfasi!) santi patroni e di un dio laico che ancora oggi viene celebrato ma che pare avere le braccia conserte, lassù nel paradiso calcistico.
Con Okafor, Scuffet e Billing affronta quel che resta della stagione cercando di afferrare un Inter che, più che una biscia, sembra un capitone natalizio: scivola, sfugge si nasconde. Un passo avanti e uno indietro.
È il giorno di Pasqua che avviene la svolta: al minuto ’94 di Bologna – Inter, Riccardo Orsolini fa esplodere il Dall’Ara, ma pure l’intera città di Napoli. Appena un giorno prima, con una partita da provinciale che si rimbocca le maniche, l’undici di Antonio Conte batte 1-0 il Monza in trasferta e riconquista il primo posto. La sblocca – e la vince – col gol di McTominay, quello che ormai per il popolo napoletano è: McFratm. È sempre lui, il premio di consolazione per il mancato arrivo di Brescianini – a firmare la doppietta che riporta il Napoli in testa: Napoli – Torino 2-0 e nerazzurri costretti a rincorrere, dopo la sconfitta interna contro la Roma di Ranieri.
Con 10 punti è fatta. Napoli, il destino è nelle tue mani. La lotta scudetto passa per il “Maradona”. Altri quotidiani, altri titoloni. Conte predica la calma prima di ogni partita. Lo fa da saggio allenatore abituato alla pressione, lo fa da calciatore cresciuto in una provinciale che ha già messo in conto quanto sarà complicato battere: Lecce, Genoa, Parma e pure il Cagliari.
Coi salentini basta una punizione “alla Diego” di Raspadori (alla Diego, non di Diego. Sia chiaro!). Tutt’altro che semplice avere la meglio sul Genoa (2-2 tra le mura amiche, alla faccia di chi considerava i liguri già in vacanza) e col Parma (0-0). Ma è in occasione della penultima di campionato, il 18 maggio 2025, che la storia azzurra si tinge per un istante di celeste: l’attimo in cui Pedro, attaccante della Lazio, realizza un calcio di rigore allo scadere e impedisce la fuga dell’Inter alla penultima giornata.
Il mattino dopo, la celebre canzone di Raffaella Carrà risuona dal Vomero fino a Forcella. Bassi, auto in coda sul lungomare, casse bluetooth portate in spalla e gli immancabili cori dei tifosi al bar. Napoli e Inter se la giocheranno fino al novantesimo dell’ultima di campionato.
Lo stadio “Maradona”, fu stadio “San Paolo”, accoglie prima una partita poi una festa. Quel cambio di nome non ha fatto altro che avvicendare un santo biblico con uno laico, le cui prove ontologiche sono nei gol fatti e nei successi ottenuti in una città che, alle 22:48 del 23 maggio, ha dato il via a un nuovo capodanno. Caroselli in strada, feste sui balconi e oltre duecentomila persone per il bus scoperto. Un’impresa colossale cominciata con una sconfitta e terminata con una festa che durerà almeno fino ad agosto. Il tutto senza la necessità di scomodare D10S.
Paquito Catanzaro