L’autore Valerio Iafrate, ospite a Ripa Teatina in occasione del XIX Festival Rocky Marciano. Nel suo libro American Icon, edito dalla Lab DFG, dedica un capitolo intero all’incommensurabile campione dei pesi, statunitense nato a Brockton, ma di origini italiane. Proprio i natali del padre Pierino portano a Ripa Teatina, in provincia di Chieti. La mamma Pasqualina era invece di San Bartolomeno in Galdo, in provincia di Benevento. Qui di seguito l’estratto del libro dedicato a The Brockton Blockbuster (“Il bombardiere di Brockton”).

Capitolo 6
1950 – Rocky Marciano, paisà e bombardiere

La battaglia per i diritti civili degli afroamericani, che Jackie Robinson aveva condotto per tutta la vita, raggiunse un altro livello a metà degli Anni Cinquanta. Il primo dicembre 1955, tornando a casa dal grande magazzino di Montgomery, in Alabama, dove lavorava come sarta, Rosa Parks occupò l’unico sedile libero del solito autobus. Quando qualche minuto dopo di lei un uomo bianco salì sul mezzo, Rosa si rifiutò di cedergli il posto, provocando la reazione dell’autista e l’intervento della polizia, che la arrestò. La sua detenzione scatenò la protesta della popolazione nera di Montgomery, che per i tredici mesi successivi boicottò i trasporti pubblici, fino a costringere l’azienda proprietaria degli autobus – ormai quasi sul lastrico – a mettere fine alla discriminazione e ad ammettere sui mezzi di trasporto neri e bianchi con gli stessi diritti. Quello della «sarta che non si alzò» fu il primo dei gesti non violenti che avrebbero contraddistinto la lotta del movimento per i diritti umani nella decade successiva, e che avrebbero avuto nel Reverendo Martin Luther King il proprio faro.
Gli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, furono contraddistinti da molteplici avvenimenti sociali e politici, a cominciare dal fallito attentato al Presidente Harry Truman, organizzato, l’1 novembre 1950 da Griselio Torresola e Oscar Collazo, due nazionalisti portoricani, che assaltarono la Blair House di Washington, il cosiddetto “Hotel presidenziale”, dove Truman stava pranzando con la famiglia: Torresola ferì mortalmente Leslie Coffelt, il capo della scorta della Casa Bianca, ma rimase ucciso nello scontro a fuoco con lo stesso Coffelt, mentre Collazo venne catturato e condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo. Lo stesso Truman, pochi mesi prima di lasciare la Casa Bianca, dove si sarebbe insediato l’eroe decorato della Seconda guerra mondiale, Dwight Eisenhower, pronunciò il primo discorso – in diretta tv – alla Nazione intera, parlando da San Francisco, il 4 settembre 1951, con la At&t che diffuse il segnale televisivo live da una costa all’altra degli Usa. La fine del secondo conflitto mondiale e la divisione della Germania produssero, tra i due blocchi mondiali – Usa da una parte e Urss dall’altra – un periodo caratterizzato da un’ostilità che non sembrava più risolvibile attraverso una guerra frontale tra le due superpotenze, dato il pericolo rappresentato da un eventuale ricorso alle armi nucleari. Una lotta per il
controllo del mondo che Walter Lippman, giornalista e politologo, definì Cold War (Guerra fredda) e che conobbe diverse fasi, caratterizzate da tensioni, come la crisi del canale di Suez nel 1953, quella missilistica di Cuba nel 1962, dove, nel frattempo, Fidel Castro e Che Guevara avevano rovesciato il regime di Fulgencio Batista, instaurando il primo governo comunista dell’emisfero occidentale, e guerre “calde”, come quella in Corea (1950-53) e in Vietnam (1964-75). Fu, questo, anche il decennio del maccartismo, l’atteggiamento politico caratterizzato da un esasperato clima di sospetto e da comportamenti persecutori nei confronti di persone, gruppi e atteggiamenti ritenuti sovversivi. Fu il Senatore repubblicano Joseph McCarthy, responsabile di una commissione per la repressione delle attività
antiamericane, a sottoporre a vigilanza centinaia di persone, operando attacchi personali nei confronti di funzionari governativi, uomini di spettacolo e di cultura da lui considerati comunisti e, quindi, responsabili di minare i fondamenti politici e ideologici della societĂ  americana.
Gli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, furono anche un decennio molto vivace dal punto di vista artistico e culturale, con la conferma del jazz e del blues in ambito musicale, dove l’esplosione del rock & roll proiettò nell’olimpo delle note Elvis Presley, che dalla metà del decennio cominciò a costruire la propria leggenda; con l’affermazione dell’espressionismo astratto di Jackson Pollock nell’arte; con la nascita della Beat Generation di Jack Kerouac in letteratura e con la consacrazione, ne Gli uomini preferiscono le bionde, del mito di Marilyn nel cinema (cinema che pure espresse, nello stesso decennio, capolavori assoluti come I Dieci Comandamenti con Charlton Heston o Gioventù Bruciata con James Dean, per tacere de Il padre della sposa, il manifesto del cinema di Vince Minnelli, con Liz Taylor e Spencer Tracy). Dal punto di vista sportivo, invece, gli anni Cinquanta furono il decennio nel quale si instaurò e
divenne stabile il rapporto tra sport e televisione, che sarebbe stato decisivo nello sviluppo dell’uno e dell’altra nelle decadi successive. In realtà i maggiori network statunitensi abc, nbc e cbs avevano già nel loro palinsesto una partita di baseball –ancora la disciplina più popolare – ogni domenica, ma la decisione della nbc di trasmettere, il 28 dicembre 1958, Baltimore Colts contro New York Giants, l’nfl Championship Game – il Super Bowl avrebbe visto la luce nove anni più tardi, con la prima edizione datata 1967 – aprì una nuova frontiera. Quella partita, peraltro giocata allo Yankee Stadium (non era inusuale al tempo che le franchigie del football “dividessero” gli impianti con quelle di baseball o con le formazioni di college)
terminò, unico caso nella storia della finale del campionato di football, 23-17 al tempo supplementare (o, meglio, con la sudden death), in favore dei Colts, grazie a un touchdown di Alan Ameche su passaggio di Johnny Unitas, uno dei migliori quarterback del periodo. Era ancora il baseball, come detto, lo sport
più popolare del periodo, ma due discipline che cominciarono in quegli anni ad assurgere alle platee televisive furono il basket e, soprattutto, il pugilato, che provò ad abbandonare il proprio lato oscuro, fatto di scommesse illegali, incontri truccati e manager in odore di criminalità organizzata. Ogni venerdì sera il Gillette Friday Night Fights portava nelle case degli americani un match in diretta televisiva: personaggi come Joe Louis, Archie Moore, Jersey Joe Walcott e Sugar Ray Robinson
divennero popolari come, e in qualche caso piĂą, delle stelle del baseball e del football.
Fu però soprattutto un pugile di chiarissime origini italiane, reduce di guerra, cresciuto in una famiglia poverissima come nel più classico dei cliché legati al ring, a infiammare la passione degli statunitensi per la boxe. Rocky Marciano, all’anagrafe Rocco Francis Marchegiano, nacque a Brockton,
in Massachusetts, il primo settembre 1923. Brockton, capoluogo della contea di Plymouth, a meno di mezz’ora di macchina da Boston, è soprannominata The city of Champions visto che, oltre allo stesso Marciano, ha dato i natali a Marvin “Il Meraviglioso” Hagler, dominatore dei pesi medi negli anni Ottanta. I genitori di Marciano, Pierino Marchegiano e Pasqualina Picciuto, avevano lasciato l’Italia nei primi anni del Novecento, diretti come tanti nel Nuovo Mondo, alla ricerca di fortuna.
Quirino era originario di Ripa Teatina, in provincia di Chieti, mentre Pasqualina proveniva da San Bartolomeo in Galdo, nel beneventano. Oltre a Rocco, i coniugi Marchegiano ebbero
altri cinque figli: Alice, Concetta ed Elizabeth e i due maschi Louis e Peter. Rocco aveva appena un anno quando contrasse la polmonite, rischiando addirittura la morte. Garzone, lavapiatti, fattorino: l’elenco dei lavori che il piccolo Rocco fece fino a 16 anni, quando venne assunto come manovale in un cantiere edile, è parecchio lungo. Fu proprio grazie all’impiego in cantiere che il suo fisico si sviluppò molto dal punto di vista muscolare. A vent’anni, però, in cerca di una professione più stabile e soprattutto più remunerativa, si arruolò nell’esercito degli Stati Uniti e venne spedito in Europa. Fu qui, in Galles,
che il suo talento per il pugilato si manifestò, anche se in maniera poco ortodossa: nel corso di una rissa in un pub di Cardiff, infatti, stese un militare australiano con un violentissimo
destro, il pugno che sarebbe diventato la sua “firma”. Al suo ritorno negli Stati Uniti, a guerra finita, dopo aver invano cercato di diventare un giocatore professionista di baseball – venne
“tagliato” dai Chicago Cubs dopo lo spring training del 1946 – cominciò ad avvicinarsi seriamente al pugilato, grazie allo zio paterno Mike, che gli procurò il primo manager, Gene Gaggiano. Gli inizi tra i dilettanti non furono brillanti: pochi minuti dopo l’inizio del primo combattimento venne squalificato per
scorrettezze, mentre al suo primo torneo, a Portland, arrivò in finale ma perse dopo un infortunio alla mano destra. La carriera di Rocky ebbe una svolta quando incontrò Alisay “Allie” Colombo, un allenatore italoamericano che rappresentò, per Marciano, ciò che Cus D’Amato fu per Mike Tyson parecchi anni dopo. «Non sarei mai arrivato dove sono arrivato senza l’aiuto di Allie», disse di lui lo stesso Marciano pronunciandone l’elogio funebre. Sotto la guida di Colombo Marciano esordì tra i professionisti, il 17 marzo 1947, mandando al tappeto dopo otto round Lee Epperson. Fu proprio dopo il match vittorioso contro Epperson che Rocky decise di cambiare il proprio nome da Rocco a Rocky, appunto, e soprattutto da Marchegiano a Marciano, più orecchiabile per gli americani, più “spendibile” per gli organizzatori e anche più pronunciabile per gli speaker dei palazzetti, che storpiavano regolarmente il cognome originale. Tra il 1947 e il 26 ottobre 1951, quando mandò al tappeto all’ottavo round l’ex campione dei massimi, Joe Louis, Marciano inanellò diciassette vittorie consecutive, tutte per k.o., che gli valsero il soprannome di “Brockton Blockbuster”, il Bombardiere. Conquistò la corona dei pesi massimi a Filadelfia il 23 settembre 1952, mettendo al tappeto il campione in carica Jersey Joe Walcott nel corso del tredicesimo round e poi battendolo di nuovo nella rivincita di Chicago il 15 maggio 1953, ancora per k.o., stavolta al primo round, dopo appena 81 secondi. Marciano avrebbe difeso con successo il suo titolo altre cinque volte, l’ultima contro Archie Moore a New York il 21 settembre 1955, finita, nemmeno a dirlo, con l’avversario al tappeto al tramonto del nono round. Considerato uno dei più grandi pugili della storia, l’unico peso massimo ritiratosi – il 27 aprile 1956 – da imbattuto, con 49 successi su 49 incontri, 43 dei quali ottenuti per k.o., Marciano fece da spartiacque nell’accettazione come americano a tutto tondo di un figlio dell’emigrazione, membro a pieno titolo della nuova patria, incarnando alla perfezione il ruolo di underdog, lo sfavorito di turno, una delle figure più amate in assoluto nell’epopea sportiva statunitense. Alto 1.78, tozzo e sgraziato, Rocky – come la sua trasposizione cinematografica, il Balboa di Stallone – costruì la sua leggenda con il lavoro, la determinazione feroce, la volontà ferrea e il suo potentissimo destro, soprannominato “Suzi Q”. Per raggiungere la palestra dove si allenava Marciano percorreva correndo la distanza da casa, 75 isolati, più o meno 6 km, sia all’andata che al ritorno. La sua alimentazione prevedeva soprattutto cereali, legumi e verdure, una dieta mediterranea ante litteram, mentre la carne, che non gli piaceva molto, la masticava cruda e poi la sputava in una ciotola, prima di cucinarla per il suo cane. Beveva pochissimo, al massimo mezzo bicchiere di vino rosso, ma era particolarmente goloso di caffè, che dolcificava con il miele che era solito portare sempre in
tasca, in un barattolino di vetro. Prima di dormire, ogni sera, faceva esercizio per gli occhi con un pendolo oscillante, per migliorare la visione periferica e la sua routine, nella preparazione a un match, prevedeva la disputa di almeno duecentocinquanta round con gli sparring-partner di turno. Tre mesi prima di ogni incontro si isolava dalla moglie e dalla famiglia, e rimaneva in ritiro fino al giorno del match; nella settimana precedente l’incontro, invece, si rifiutava di ricevere telefonate, di aprire la posta, di incontrare chi non conosceva e persino di stringere mani. Marciano se ne andò troppo presto, la sera prima del suo
quarantaseiesimo compleanno, in un incidente aereo il 31 agosto 1969, provocato dalle proibitive condizioni atmosferiche nel quale il piccolo velivolo privato sul quale viaggiava da Chicago a De Moines si trovò al momento dell’atterraggio, schiantandosi contro una quercia in un campo di grano in Iowa. La
sua infinita grandezza di pugile, tuttavia, rimane intatta, forse persino più di Muhammad Ali, almeno sul ring: i due, peraltro, furono protagonisti di un match impossibile, e infatti virtuale, The Superfight. La domanda su chi fosse il più grande peso massimo – e quindi, per estensione, il più grande pugile
– di sempre aveva (e ha) sempre affascinato giornalisti, commentatori, semplici appassionati. Per cercare di trovare una risposta il produttore radiofonico Murray Woroner ebbe l’idea, nel 1967, di un vero e proprio torneo a eliminazione diretta, tutto virtuale, tra i migliori sedici pugili della storia, scelti
dopo che lo stesso Woroner aveva chiesto un parere a duecentocinquanta tra esperti, giornalisti e scrittori. Ogni caratteristica tecnica dei pugili, e ogni statistica dei loro incontri, venne inserita in un computer di seconda generazione, un ncr 315 della sps, la Systems Programming Services, una società informatica di Miami, che trasformò tutti i dati in algoritmi predittivi. I dati, poi, vennero convertiti in vere e proprie sequenze di colpi, messi a segno e ricevuti da ogni pugile, trasferiti a una linea elettronica digitale e stampati in quella che divenne la cronaca di ogni singolo match che Woroner e l’annunciatore Guy LeBow leggevano in radio. Match dopo match l’ncr 351 determinò che proprio Marciano fosse The Greatest, dopo aver sconfitto nell’incontro finale Jack Dempsey, e Woroner omaggiò il vero Rocky di una vera cintura del titolo mondiale, in oro e diamanti, dal valore di circa diecimila dollari. Muhammad Ali, eliminato al secondo turno del torneo virtuale da Jim Jeffries, che egli stesso aveva definito, nella vita reale, «il peso massimo più goffo e più lento della storia», citò Woroner per diffamazione, chiedendo un milione di dollari di danni. Woroner, invece, gli offrì diecimila dollari per realizzare un film, con la stessa tecnica utilizzata per il fantasy fight, nel quale avrebbe combattuto virtualmente con Marciano. I due accettarono in cambio anche di una parte dei proventi del film («Non era un gran periodo, per me, dal punto di vista finanziario», scrisse Ali nella sua autobiografia) che sarebbe stato distribuito in 1500 sale cinematografiche in contemporanea negli Stati Uniti, in Canada, in Messico e in Europa. Così, nel luglio del 1969, il mese in cui Neil Armstrong fece il “grande passo avanti per l’umanità”, Marciano e Ali entrarono in una palestra di Miami con le pareti oscurate e simularono 70 round da un minuto. Al tempo Ali era ancora squalificato dopo il rifiuto di arruolarsi e partire per il Vietnam («Non andrò a diecimila miglia da casa per aiutare a bruciare un’altra nazione povera solo per conservare la dominazione dei popoli bianchi sui popoli di pelle scura in tutto il mondo. E poi nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro…»), mentre Marciano aveva smesso da più di dieci anni, era ingrassato di una ventina di chili, aveva perso i capelli – mascherava la calvizie con un parrucchino – e guadagnato centinaia di migliaia di dollari investendo in ristoranti, gioiellerie, compagnie di autonoleggio. Eppure su quel ring, mentre fingevano un durissimo match di pugilato che un super computer avrebbe giudicato basandosi sui dati raccolti dai maggiori esperti americani di boxe (trasformati poi in cinquantotto fattori di valutazione come velocità, capacità di assorbire i colpi, durezza del pugno, coraggio, fino all’istinto omicida), tra i due nacque un sentimento vero, di reciproco e profondo rispetto, se non di amicizia. «Non ho mai incontrato un combattente veloce e preciso come te», confidò Marciano ad Ali al termine della registrazione. Ali, invece, rese a suo modo tributo a Rocky nel 1976, parlando con Howard Cosel al Wide World of Sports, programma cult della abc, in onda ininterrottamente ogni sabato dal 29 aprile 1961 al 3 gennaio 1998:
«Non era bello come me, non era eccezionale come me, lo sanno tutti. Probabilmente non sarei riuscito a mandarlo k.o., ma, nel mio giorno migliore, e nel suo giorno migliore, sicuramente lo avrei battuto».
Ma l’ncr 315 la pensava diversamente: il Superfight finì con la vittoria di Marciano, al tredicesimo round. Per k.o., ça va sans dire.

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