E’ stata eletta la migliore tuffatrice in Europa nel 2022. Il prestigioso riconoscimento per la romana Chiara Pellacani, 20 anni, arriva dalla LEN, Lega Europea del nuoto che istituì il premo nel 2008. Per la prima volta, oltre agli addetti ai lavori delle Federazioni nazionali, il voto è stato aperto alla giuria popolare.

La campionessa europea dei tuffi dai tre metri con il 28% dei consensi l’ha spuntata di tre punti sull’ucraina Sofiya Lyskun. Come italiana succede alla regina dei tuffi Tania Cagnotto. In trionfo insieme a Gregorio Paltrinieri nel fondo e Giorgio Minisini, nel nuoto artistico.

Chiara Pellacani è una delle protagoniste di VITTORIE IMPERFETTI, raccontate dalla penna di Federico Vergari. Libro edito dalla Lab DFG, di cui vi proponiamo il capitolo dedicato alla tuffatrice, dal titolo “Il mio sogno sempre“.

“Gianni Brera, non uno qualunque. Fu Gianni Brera ad accorgersi con grande anticipo, prima di tanti altri colleghi giornalisti, di quante storie potevano nascondersi dentro un semplice tuffo. Capì, prima di molti, quante sfumature si potevano raccontare (e in quanti modi) di quei pochi secondi composti da preparazione, salto, caduta e ingresso in acqua. Brera, ad esempio, comprese davanti a quanti attimi e bivi poteva arrivare a trovarsi un tuffatore nel momento in cui decideva che era giunta l’ora di cadere e lasciare che fossero la gravità e il vano gesto atletico di sfidarla il più a lungo possi-bile a fare il resto. Equilibrio, muscoli e concentrazione per sfidare la gravità. Un mix di sudore, fatica, concentrazione e follia per racconta-re la storia più bella perché «colui che segue i tuffi» sosteneva Brera «è autorizzato a pensare che l’ambizione umana sia sen-za fine, perché in questa disciplina, peraltro onorata dal co-raggio e dalla grazia, gli uomini si ingegnano di mimare i gabbiani o qualsiasi altro uccello usi tuffarsi in picchiata per catturare un pesce a tutto becco». Incontro e intervisto Chiara Pellacani poche settimane dopo le celebrazioni per il centenario dalla nascita di Gianni Brera. Non so perché faccio immediatamente questa associazione, però la faccio. C’è qualcosa che accomuna un giornalista che oggi sarebbe centenario e una ragazza che appena diciassettenne, degna rappresentante della generazione Z, quella dei post millennial, ha già vinto due titoli europei. Tra Brera e la Pellacani scorrono generazioni, vite, fatti, pezzi di sport e di storia. Se Brera vedeva nei tuffatori l’ingegno umano che si attrezzava per raggiungere un obiettivo, come un uccello che si tuffa nell’acqua per pescare un pesce, allo stesso modo Chiara Pellacani in pedana non fa passi indietro e si getta in acqua con grazia, senza paura e a tutto becco per cercare di lasciare un segno nella sua vita, nella sua storia, nello sport. Possibilmen-te senza fare troppi schizzi. Chiara, intanto, un segno lo sta già lasciando. Lei è la più giovane campionessa europea della storia. Vien da sé che sia anche la più giovane italiana a essersi imposta su un palcosce-nico internazionale così prestigioso. Non così scontato in uno sport dove siamo stati abituati, per una buona decade, a sen-tire sempre gli stessi nomi. Siamo un popolo di abitudinari, lo sappiamo. Spesso il nuovo deve fare dei giri immensi prima di poter essere riconosciuto e accettato come tale. Come una gio-vane, nuova, campionessa. Se da una parte basta cercare il suo cognome su Google per vederla esultare, baciare medaglie d’oro, saltare in sincro con le sue compagne o vincere gare, dall’altra parte è sufficiente scambiarci due chiacchiere per capire che in fondo – vittorie e capacità atletiche a parte – Chiara è ancora una ragazzina di diciassette anni. Parla con quel fare schietto degli adolescen-ti che si sentono sicuri di sé, la sua risata scanzonata tradisce una saggezza precoce. Quella di chi è consapevole che di stra-da da fare ce n’è ancora tanta e i trampolini su cui arrampicar-si forse non finiranno mai.
«Nel tempo libero – che è davvero poco – di solito guardo delle serie su Netflix. Adesso ne sto guardando una che mi pia-ce davvero tanto, si chiama Peaky Blinders ed è appena usci-ta la quinta stagione. Le altre serie credo di averle viste più o meno tutte. Nel weekend, se non ci sono gare, cerco di passa-re il tempo libero coi miei amici, ma la domenica me ne resto a casa e ricarico le energie per ricominciare la settimana. Durante i viaggi, soprattutto quelli lunghi, ascolto tanta musi-ca. Ascolto davvero di tutto, ma se proprio devo dire un nome ecco, mi piace tanto il cantante Ultimo». Chiara, come molti dei suoi coetanei, studia e si allena. Alla sua età è legittimo sognare di sfondare e diventare qualcuno. Lei lo ha fatto, ma non è arrivata. Non ci si sente e guai anche solo a pensarlo. Ogni giorno Chiara deve combattere molte battaglie, tutte im-portanti e fondamentali. Ogni giorno Chiara si sveglia e sa che deve rendere conto al resto del mondo di quelle due medaglie d’o-ro europee conquistante con grande e incredibile precocità. Le tiene su una mensola della sua cameretta e ogni tanto, confessa, si incanta a guardarle. Ogni giorno Chiara sa che se dovesse sba-gliare un passaggio nella sua carriera per ora così lineare e vincente, dovrà risponderne davanti a tante persone che iniziano ad alzare l’asticella delle attese. Chiara però sembra non pensarci. Non capisco se mente, come del resto farebbe qualsiasi diciassettenne che non vuole mostrare un lato non debole ma semplicemente umano, o se mi sta dicendo la verità. So quello che avrei fatto io a diciassette anni con quel talento, ma non basta. Io avrei spudoratamente mentito, e poi dentro di me avrei giurato che non avrei smesso di allenarmi finché non sa-rei arrivato al traguardo. Continuando a provare e riprovare. «Ho fatto i primi tre anni del Liceo Scientifico, indirizzo sportivo, presso il Centro di Preparazione Olimpica Giulio Onesti all’Acqua Acetosa, ma il quarto anno lo sto facendo da privatista. Stiamo per entrare nell’anno olimpico e voglio massimizzare i tempi di allenamento, ovviamente senza perdere di vista lo studio». La cosa più pratica da fare è, allora, rimodulare la quotidianità. Cercare di inserire diverse sessioni di allenamento nell’arco della stessa giornata e nei momenti morti organizzare lo studio. Salvo poi ammettere candidamente, come farebbe qualsiasi altra ragazza della sua età, che «il quinto anno tornerò a farlo nel mio liceo, ché ci sono gli esami di maturità». Da una parte l’esperienza olimpica, la voglia di essere già grandi, il desiderio di vincere e realizzare il sogno di una vita e poco importa se quella vita è davvero appena iniziata. Dall’al-tra parte la paura delle paure per qualsiasi adolescente: l’esame di maturità. L’esame di maturità sembra che sia per molti italiani il sogno più ricorrente. C’è chi sogna di doverlo ancora sostenere, trent’anni dopo. Sarebbe bello tra venti anni sapere cosa sognerà Chiara. Se un tuffo per ribaltare una gara e olimpica o l’esercizio sui radicali della maturità scientifica. Chiara non ha Facebook, ma le piace mettere foto e fare sto-rie su Instagram. Ogni tanto tra le sue foto compare un hashtag: #Dreaming-Tok yo. Semplice, quasi banale, schietto e diretto. Proprio come un sogno adolescenziale. Un sogno, un punto di arrivo e di ri-partenza. In ogni caso e con ogni risultato. «Da quando ho iniziato questo sport il mio sogno è sempre stato quello di partecipare alle Olimpiadi e mi sono resa conto che quest’anno può diventare reale. Ce la posso fare. È il mio sogno da sempre e mi allenerò ancora di più per raggiungerlo. Spero con tutta me stessa di farcela.»
Ci salverà la generazione Z, dicono in tanti. Parlando con Chiara non posso non pensare a Greta Thunberg e alla sua capacità di mobilitare milioni di suoi coetanei, di farli scendere in strada, di renderli dei consumatori responsabili. Più adulti… di tanti adulti. Mi domando se stare su una piattaforma da dieci metri, giocarsi un oro europeo con un salto, calibrando i movimenti e l’ingresso in acqua con una compagna di squadra non generi una pressione simile a quella che una sedicenne potrebbe provare parlando alle Nazioni Unite, ad esempio. Sono laico e diffidente per natura e non so se siamo in buone mani, però so che le mani degli adolescenti di oggi possono es-sere delle mani più sicure di molte mani del passato. Mani che sanno quello che fanno. Nello sport e nella vita. «Sì, mi è capitato spesso di parlare di Greta, penso che sia una ragazza determinata che vuole aiutare il mondo, quindi bene. Viva Greta. Sicuramente si porta dietro un peso grande e tan-ta responsabilità. Io spesso la sento la pressione, ma provo a non pensarci e la maggior parte delle volte ci riesco. Cerco di ricordar-mi che quando mi tuffo faccio quello che più amo e più mi diverte al mondo e questo mi aiuta. Alle aspettative che gli altri ripongo-no su di me cerco di non pensare. Ogni obiettivo che raggiungo è un traguardo solo per me stessa. Ad esempio non mi fermo a pen-sare che sono la più giovane campionessa europea nella storia di questo sport. Cerco di guardare oltre, penso ad allenarmi e a di-minuire i margini di errore. I tuffi, contrariamente al nuoto dove magari una carriera si esaurisce nell’arco di un quadriennio, con-sentono all’atleta di maturare o, se vuoi, di invecchiare. Per que-sto i tuffi sono uno sport in cui più cresci e più puoi diventare un atleta migliore; perché l’esperienza ti porta a perfezionarti e a cre-scere, maturi e acquisisci consapevolezza. Per arrivare in finale bisogna fare tanti sacrifici, quindi meno penso a quello che posso perdere, quando mi tuffo, meglio è».
Chiara non ha alcun problema a lasciarsi cadere in una pi-scina da dieci metri di altezza. Magari facendo una verticale, un avvitamento o qualche salto mortale all’indietro, per ren-dere la caduta più interessante per il pubblico e per i giudici. Però ha paura di volare. Chiedetele di saltare, ma non parlatele di un volo inter-continentale perché potrebbe impazzire. Questione di fiducia, dice. Lei quando si tuffa sa cosa sta facendo, si è allenata e si fida dei suoi mezzi. Potesse pilotare lei l’aereo – ammette can-didamente, quasi alla fine del nostro incontro – con quell’in-genuità tipica degli adolescenti, allora non avrebbe problemi a volare. Vol a re. Tu ff a r s i . In fondo sono quasi la stessa cosa. Controllare il proprio corpo, muoversi in aria rallentan-do la caduta e fare delle evoluzioni. Inizia tutto con un naso all’insù verso un trampolino o una pedana e funziona pres-sappoco così. Ci si avvicina alla punta della pedana. Una delle due atlete chiede all’altra se è pronta e aspetta una risposta. Aspetta un sì. Ascolta il sì e poi conta fino a tre. Uno, due, tre. Da quel momento in poi ognuna va per la sua strada. Ognuna sa cosa deve fare e come. Il tuffo sincronizzato in realtà è sincronizzato fino al salto, poi diventa un tentativo, di fare due tuffi il più possibile iden-tici tra loro. E spesso, in questo tentativo, Chiara Pellacani si ritrova su un gradino del podio con una medaglia al collo. Magari d’oro.
Come è accaduto ai campionati europei, tuffandosi con Noemi Batki o con Elena Bertocchi, rispettivamente a Kiev nel 2019 (oro nel sincro da dieci metri) e a Glasgow nel 2018 (oro nel sin-cro da tre metri). Chiara si tuffa, sogna, guarda Netflix, ascolta Ultimo, stu-dia e si allena. Ogni giorno. Perché vuole essere la migliore, vuole ridurre i margini di errore, vuole andare alle Olimpiadi. Quei cinque cerchi sono il suo sogno, da sempre. Sempre è un concetto bellissimo se hai diciassette anni. Sempre non è un per sempre e nemmeno un da sempre. Sem-pre non è una prigione dell’età adulta dentro cui è rimasto in-trappolato qualcosa. Sempre è un avverbio di tempo con la deroga della giovi-nezza. È un tempo relativo dentro cui c’è un’età acerba e una precocità. Le sogna sempre le Olimpiadi, Chiara Pellacani. E l’augurio per tutta la sua carriera non può essere che uno. Quello di costruire dei ricordi capaci di durare nel suo cuo-re e nei nostri. Sempre”.

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