XXIV ottobre 2023

Il senno di prima

Appunti di Fulvio Scaparro

Cicatrici

A D.C.

che ha perso un figlio,

non se ne dà pace

ma vive e lotta insieme a lui

              Qualche mese fa ricevo un libro da un’amica. È scritto da un noto giornalista sportivo, Marco Fantasia. Il titolo, Golden Set, che nel gergo del volley o pallavolo indica il set di spareggio decisivo per assegnare la vittoria a due squadre a pari punti alla fine di un torneo, mi ha fatto pensare che l’amica mi avesse fatto un regalo gradito conoscendo la mia passione – da spettatore – per la pallavolo.

Per un po’ il libro è rimasto sulla mia scrivania insieme ad altri volumi ricevuti finché, incuriosito dal sottotitolo “Storie di donne e di uomini che non si sono fatti schiacciare”, ho iniziato a sfogliarlo con interesse sempre crescente. Per professione e per crescita personale non è certo la prima volta che leggo testi scientifici o divulgativi su come si reagisce alle gravi avversità che la vita non risparmia a me, alle persone care, ai miei pazienti e a nessuno dei miei simili.

Mi ha fatto piacere trovare tante testimonianze di atleti che hanno descritto con chiarezza e semplicità le durissime esperienze di vita che hanno attraversato, la profondità della disperazione nella quale sono piombati e il modo in cui sono riusciti a risalire la china fino a ritrovare la gioia di vivere. Le storie sono anche accompagnate da interventi altrettanto chiari di specialisti che spiegano al lettore come affrontare e nei limiti del possibile superare gli ostacoli di cui è cosparso il percorso della nostra vita. “Per non farsi schiacciare” richiama un altro termine della pallavolo, la schiacciata, una delle fasi più spettacolari. L’atleta, in elevazione, dà uno schiaffo alla palla tanto potente da rendere difficile la risposta degli avversari. Gli esperti mi diranno che c’è anche la finta schiacciata quando gli avversari si aspettano un colpo fortissimo e invece l’atleta, sempre in elevazione, appoggia delicatamente la palla al di là della rete ingannando gli avversari, ma questa è un’altra storia.

Quando la vita ci schiaccia, il colpo lascia cicatrici. Tutti noi siamo pieni di cicatrici visibili e invisibili. Io ne ho alcune visibili che mi ricordano incidenti spesso subiti senza mia responsabilità e altre che risalgono ad avventure pericolose di gioventù. Quando i danni fisici non sono invalidanti possiamo ben conviverci senza difficoltà. Diverso, invece,  è il caso delle cicatrici invisibili, quelle cosiddette morali che sono indelebili e sono in parte responsabili di quello che oggi siamo, tracce di esperienze dolorose e talvolta tragiche che hanno segnato il nostro passato.  I segni delle passate ferite, quando anche ne fossimo in parte o in tutto responsabili, sono durature testimonianze di vita che possono esserci di ostacolo se sono oggetto di continua rimuginazione e   di auto-commiserazione o colpevolizzazione, soprattutto se non abbiamo reagito o non siamo stati aiutati a reagire all’evento infausto e a passare dal dolore e dalla disperazione alla speranza.

Non ha importanza se pratichiamo o no un’attività sportiva, non ha importanza se siamo giovani, adulti o anziani. Come ho scritto nel luglio scorso in questi appunti, ricordiamo le parole di Goethe: «Di ciò che è scaturito non siamo più padroni,  ma siamo padroni di renderlo innocuo».

Le dodici storie esemplari delle atlete e degli atleti presentate nel libro sono un’occasione per riflettere su noi stessi e soprattutto uno strumento per prepararci a camminare sia quando il tempo è buono sia quando “fischia il vento eppur bisogna andar”.

Per i più curiosi tra voi, segnalo una forma d’arte giapponese, l’arte delle preziose cicatrici, che è anche una valida forma di terapia, il Kintsugi o Kintsukuroi (letteralmente, “riparare con l’oro”), “che consiste nell’incollare i frammenti di un oggetto rotto con una lacca giallo rossastra naturale e nello spolverare le crepe che attraversano l’opera ricomposta con della polvere d’oro (più raramente d’argento o di rame). Il risultato è strabiliante: il manufatto è striato d’oro, percorso da linee che lo rendono nuovo, diverso, bellissimo. La casualità determinata dalla rottura, rende gli oggetti redivivi grazie al kintsugi, tutti differenti fra loro e dunque unici, oltre che pregevoli per via del metallo prezioso che li decora.[…] La circostanza che il Kintsugi non costituisca una pratica alla portata di tutti, appare, tuttavia, del tutto secondaria: a contare, infatti, non è tanto la possibilità di riparare un oggetto accrescendone la bellezza e il pregio, quanto la filosofia che ne è alla base, secondo la quale la vita consta non soltanto d’integrità, ma anche di rottura e, come tale, va accolta. Il dolore, per i giapponesi, non incarna un sentimento vergognoso, da estirpare o da occultare, così come l’imperfezione estetica non rappresenta un elemento capace di rovinare l’armonia di una figura; le crepe dell’oggetto rotto non vanno nascoste né mimetizzate ma valorizzate, esattamente come le cicatrici, i difetti fisici e le ferite dell’anima non vanno celate ma esibite senza imbarazzo, essendo le stesse parte dell’uomo e della sua storia.”[fonte:http://www.ilquorum.it/kintsugi-le-cicatrici-doro/]

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